Un’insospettabile “buona forchetta”: le stravaganti abitudini di Immanuel Kant e l’arrosto di manzo alla senape inglese

Sarà stata l’immagine caricaturale che gli viene appioppata dai libri scolastici e dall’aneddotica popolare; sarà stato il ricordo di quella trionfale interrogazione di filosofia dell’ultimo anno di liceo durante la quale su venti interrogati (e altrettante insufficienze) fui l’unico a rispondere a un perfido quesito sulla Critica della ragion pura; o sarà stato semplicemente il fascino che questo personaggio ha sempre esercitato su di me, ma quando un paio di mesi fa Alessandra mi comunicò l’argomento del contest che aveva ideato per festeggiare il primo anno di vita del suo blog Ricette di Cultura, mi venne subito in mente lui: il grande Immanuel Kant. Abbinare una ricetta a un personaggio storico è un’impresa molto stimolante e, per ciò che riguarda Kant, dalle leggende sulla sua proverbiale puntualità e metodicità alle domande sulla sua quotidianità e sui suoi gusti culinari, il passo fu breve. Iniziai subito a documentarmi, scoprendo che della vita del grande filosofo tedesco conosciamo anche i più intimi dettagli: dalla conformazione del suo cranio e del suo torace, alla pigrizia del suo intestino, dalla sua mania di evitare ogni forma di sudorazione, alle sue fissazioni da ipocondriaco.

Le abitudini più famose di Kant, quelle che gli diedero ben presto la fama di uomo metodico e puntualissimo, si formarono in gran parte a partire dal 1770 quando, dopo essere stato precettore e stravagante magister (libero professore) per svariati anni, ottenne, ormai ultra quarantenne, la cattedra di logica e metafisica presso l’Università di Königsberg. Benché non avesse particolari problemi economici, Kant all’epoca non manteneva una casa propria, ma prendeva soltanto stanze in affitto, alla ricerca di un luogo silenzioso dove poter condurre le proprie meditazioni e le proprie ricerche. Impresa, a quanto pare, tutt’altro che semplice nella Königsberg del Settecento, attivo snodo commerciale sul mar Baltico le cui strade erano attraversate da rumorosissimi carri. Un paio d’anni dopo aver ottenuto l’importante incarico, per di più, il filosofo fu costretto a cambiare abitazione poiché il suo vicino di casa teneva nel cortile un gallo che puntualmente, sul più bello, interrompeva le sue meditazioni. Nonostante la proposta di Kant di acquistare a qualsiasi prezzo il pennuto (evidentemente per disfarsene), l’ostinato vicino non ne volle sapere di andare incontro alle sue richieste.
Non certo di salute perfetta, ma di corporatura fragile, ipocondriaco, affetto da gastrite e da numerose reazioni allergiche, Kant era costretto a insegnare 22 ore a settimana, sottraendo notevoli energie ai propri studi. Convinto com’era di dover fissare, anche per le cose meno importanti, delle massime, delle regole di comportamento da rispettare in maniera ferrea, ma anche spinto dai rigidi orari impostigli dal proprio impiego, aveva pianificato in maniera molto precisa la sua giornata. Poiché l’università aveva programmato uno dei suoi corsi alle 7 del mattino, prese l’abitudine di svegliarsi prestissimo. Il suo servitore, un ex-militare rimasto al suo servizio per quarant’anni, aveva l’ordine di svegliarlo alle 5 e di essere particolarmente insistente in modo che Kant, per il quale non era semplice alzarsi tanto presto, non proseguisse a dormire. Una volta in piedi, il filosofo consumava due tazze di tè leggero e fumava una pipa di tabacco dedicandosi alla meditazione (e nonostante si fosse imposto la regola di consumare una sola carica di tabacco al giorno, pare che il fornello della sua pipa si fosse allargato notevolmente negli ultimi anni). Dopo la meditazione si dedicava ai libri e alla preparazione delle lezioni, che si tenevano dalle 7 alle 11. In seguito lavorava ai suoi scritti fino alle 13, quando usciva per pranzare in un ristorante o in un’osteria.

Era questo un momento molto importante della giornata di Kant. Si racconta che si accordasse con l’oste per avere la compagnia di persone a modo, che non lo tediassero con conversazioni erudite e artificiose o con quesiti filosofici che richiedessero un grande sforzo mentale. A tavola voleva «rilassare lo spirito affaticato e, come soleva dire, far onore al corpo», per questo amava discorrere con persone di condizione assai diversa dalla sua, soprattutto militari privi di istruzione, non disdegnando peraltro espressioni volgari e provincialismi. Inoltre, era molto attento nella scelta del cibo, di cui apprezzava soprattutto la semplicità: carne ben cotta, buon pane e buon vino.

Al pomeriggio passeggiava per un’ora, quasi sempre al viale dei tigli, in seguito chiamato proprio per questo “Viale del filosofo”. Camminava sempre da solo per non dover parlare con nessuno: in questo modo poteva respirare soltanto con il naso, evitando di introdurre aria dalla bocca, pratica che a suo parere era causa di numerose malattie respiratorie. Kant trascorreva il resto del tempo con il suo amico più caro, Joseph Green, un mercante inglese, scapolo come lui, che viveva seguendo in modo pedante l’orologio e il calendario. Gli aneddoti sulla puntualità di Kant nascono proprio da questa amicizia: pare che i vicini potessero regolare i propri orologi in base al momento in cui Kant usciva dalla casa di Green, alle 19 in punto. La sera, infine, il filosofo si dedicava alla lettura fino alle 22 o frequentava compagnie altolocate, dal momento che fin dagli anni in cui era un elegante magister era diventato il prediletto della contessa Keyserlingk alle cui cene importanti era un ospite fisso. Insomma, per anni, pur vivendo in maniera regolata e metodica, non condusse affatto quell’esistenza appartata che spesso gli si associa.
Tuttavia, in seguito alla morte dell’amico Green, avvenuta nel 1786, Kant mutò abitudini: cominciò a condurre una vita molto più ritirata, smise di andare in società la sera, rinunciando ben presto anche all’abitudine di cenare, tanto che, negli ultimi vent’anni della sua esistenza, il suo unico pasto quotidiano fu quasi sempre solo il pranzo. Con il cambio di abitazione avvenuto un paio d’anni prima, poi, iniziò a costruirsi una nuova economia domestica. Smise di mangiare fuori casa, assunse un cuoco e cominciò a tenere pranzi invitando amici o semplici conoscenti, tutti cittadini importanti di Königsberg: colleghi dell’Università, alti funzionari, uomini politici, commercianti e religiosi.
Durante questi appuntamenti conviviali, che costituirono l’unico momento di socialità della vita di Kant fino alla morte, tutto era programmato nei minimi dettagli. Il filosofo, che aveva una grande cura del proprio aspetto, si vestiva di tutto punto e aspettava con ansia che alle 13 arrivassero i convitati, il cui numero variava da un minimo di tre a un massimo di nove. A quel punto Kant istruiva il servitore affinché cominciasse a predisporre per il pranzo e lui stesso prendeva dalla credenza i cucchiai d’argento, continuando a intrattenere gli ospiti che lo precedevano nella sala da pranzo, semplice e priva di ornamenti come gli altri ambienti. Qui si prendeva posto senza troppe cerimonie e se qualcuno si accingeva a dire una preghiera, Kant lo interrompeva invitandolo a sedersi.
Le portate, che venivano accompagnate da burro e formaggio, erano tre e, a detta degli invitati, erano assai buone e ben cucinate; se la stagione era quella giusta, erano previsti anche frutta e dessert. La prima portata era quasi sempre una minestra, solitamente brodo di carne, per lo più di vitello, con riso, grano brillato o cappellini a cui Kant aggiungeva nel proprio piatto fettine di pane di segale per renderla più densa. La seconda portata era costituita da pesce, frutta secca e legumi, mentre la terza era composta da carne di manzo assai tenera (a quanto pare una frollatura mal fatta incideva molto sul suo umore) che Kant amava accompagnare con burro, legumi e soprattutto con della senape inglese che lui stesso preparava e di cui era talmente ghiotto da non disdegnare di aggiungerla anche alle altre pietanze. Il filosofo aveva un modo assai particolare di consumare la carne: la masticava inghiottendone solo il succo e ne riponeva ciò che restava sul piatto. Il pasto si concludeva con il formaggio, che gli piaceva molto, e il tutto veniva annaffiato con varie bottiglie di ottimo vino. Kant beveva solo acqua e vino, mentre non apprezzava affatto la birra, che lo saziava troppo rovinandogli l’appetito.
Dati i suoi gusti culinari, per Ricette a spasso nel tempo non potevo non pensare a un piatto di carne in abbinamento alla sua amata senape. Ecco quindi il mio arrosto di vitellone alla senape ovviamente con un semplice contorno di legumi, i piselli.
Dopo aver legato il pezzo di carne (da 700 grammi) assieme a del rosmarino con dello spago da cucina, l’ho rosolato accuratamente in un tegame con fondo alto, con un tocco di burro, un cucchiaio d’olio e un trito di due fette sottili di pancetta. Quando la carne si è scurita su tutti i lati ho aggiunto uno spicchio d’aglio e una cipolla tritata finemente. Ho poi sfumato con un bicchiere di vino bianco e ho fatto cuocere per un’ora e un quarto aggiungendo a intervalli regolari un mestolo di brodo vegetale (preparato con cipolla, patata, carota e sedano). Intanto ho cotto a parte, per mezz’ora, i piselli con della cipolla tritata finemente, a cui ho aggiunto, cinque minuti prima di concludere la cottura, tre foglie di basilico tritato.

Una volta trascorso il tempo di cottura necessario per l’arrosto, ho spento il fuoco e lasciato riposare la carne per dieci minuti, preparando la salsa: ho filtrato il suo fondo di cottura e vi ho aggiunto, portandolo ad ebollizione, quattro cucchiaini di senape e mezzo cucchiaio di farina per farlo addensare. Ho poi affettato la carne, l’ho impiattata con un po’ di piselli, versandovi sopra la salsa calda.
Ho accompagnato questo arrosto con un Curtefranca Rosso della cantina Conti Ducco, un assemblaggio della Franciacorta (Merlot 50%, Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc 30%, Nebbiolo 10%, Barbera 10%), che mi ha davvero estasiato. La sua morbidezza, la sua polpa e i suoi sentori di frutta matura, di amarena e prugna, hanno permesso un abbinamento fantastico con questo piatto molto speziato.
E tra i fumi dell’alcol e la dolce atmosfera della serata ho immaginato di avere di fronte il filosofo di Königsberg, che, come me, era davvero una buona forchetta tanto che i suoi pranzi potevano prolungarsi, se era in buona compagnia, anche fino alle sette o alle otto di sera. Mi sono tornate in mente, allora, le parole di un suo contemporaneo che ebbe la fortuna di essere invitato un giorno alla sua tavola:
«Notai subito che i grandi spiriti non vivono solo d’aria. Non mangiava solamente con appetito, ma con sensibilità. La parte inferiore del suo volto, tutta la periferia delle mandibole esprimeva in modo inconfondibile il piacere del gusto; addirittura qualche sguardo profondo si fissò su questa o quella pietanza in modo tanto determinato che in quel momento egli era puramente un uomo da tavola. Gustava allo stesso modo il suo buon vecchio vino. […] Dopo aver pagato il suo tributo alla natura divenne molto loquace».
Come me in questo post, forse troppo lungo; ma se siete arrivati alla fine è perché anche voi, forse, vi siete lasciati affascinare dalle stravaganti abitudini di questo personaggio straordinario che, a tavola, si mostrava in tutta la sua ordinaria umanità.

Bibliografia:
M. Kuehn, Kant. A Biography, Cambridge, Cambridge University Press, 2001 (trad. it.: Id., Kant. Una biografia, Bologna, Il Mulino, 2011).
R. Fellin, F. Sgarbi, S. Caracciolo, L’altro Kant. La malattia, l’uomo, il filosofo, Padova, Piccin, 2009.

5 Comments

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