Da diversi anni mi sento profondamente attratto dal jazz, pur non essendo affatto un esperto. Ho avuto un’istruzione musicale rigidamente classica e l’ambiente del conservatorio torinese, che ho frequentato per quasi dieci anni, non mi ha trasmesso i giusti stimoli per aprirmi ad altre forme di culture musicali. Certo, questo non mi ha impedito di innamorarmi di generi apparentemente assai distanti dalla musica classica, come il rock e l’heavy metal in particolare, ma il jazz ha sempre avuto una sua aurea misteriosa che soltanto ultimamente sto cercando di dipanare. Mi è sempre sembrato un genere molto ostico, non semplice da ascoltare né da capire: la presenza di strutture assai lontane dalla tradizionale forma-canzone e i suoi fondamenti armonici mi sono sempre apparsi come un muro quasi invalicabile. Ma al di là dell’aspetto tecnico e del godimento che traggo dall’ascolto dei capolavori di Charlie Parker, Miles Davis, John Coltrane, Lee Morgan (per citarne solo alcuni) sentivo che questa musica aveva molto da dirmi, non solo sul piano emozionale. Sentivo che ascoltare il jazz mi avrebbe permesso di aprire una finestra privilegiata su aspetti troppo spesso trascurati della cultura americana. E ho trovato conferma di quanto sospettavo in questo bel libro di Wynton Marsalis, grande trombettista di musica classica e soprattutto jazzista di fama mondiale.
Come il jazz può cambiarti la vita (Feltrinelli, 2008) non è soltanto una dichiarazione d’amore per questo genere musicale; non parla solo di emozioni, di quel «potere di adesso» – nel jazz non c’è sceneggiatura, il jazz è conversazione – come lo definisce Marsalis. Questo libro parla soprattutto di un modo d’essere e di un modo di stare al mondo, affrontando una delle questioni più importanti del vivere sociale: il rapporto tra la propria individualità (e la possibilità di poterla esprimere liberamente) e la necessità di rapportarsi con gli altri, rispettandoli. Il jazz, spiega Marsalis, ti insegna a «lavorare con quello che hai», ti insegna a prendere atto dei tuoi limiti, a lavorare sui tuoi difetti per trasformarli in punti di forza e a convincerti che queste peculiarità ti rendono unico. Allo stesso tempo, però, ti insegna a «far funzionare le cose insieme ad altri», a condividere un progetto e dunque ad accettare le decisioni di altre persone, nell’ottica di una proficua collaborazione. Non male come insegnamento in questo particolare momento storico.
Ma non c’è solo questo. Come immaginavo, per usare le stesse parole di Marsalis, «conoscere il jazz apre nuove prospettive alla percezione della storia». Sì perché il jazz non è affatto una musica razziale, non è la musica dei neri americani; al contrario, è il più grande contributo artistico dell’America al resto del mondo, e pur essendo «la musica più propriamente americana» non è mai stata considerata centrale nella cultura degli Stati Uniti. Conoscere il jazz e la sua storia significa certo affrontare il tema della segregazione razziale, del lungo processo di emancipazione degli afro-americani, delle grandi battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta, ma senza considerarli come movimenti che riguardano solo una “minoranza”, ma come movimenti nazionali, riguardanti pienamente la storia degli Stati Uniti. Ciò che spesso si dimentica, infatti, è la «riunificazione operata dal jazz». Nel corso dei decenni è sempre stato così: «il modo in cui uno suonava era molto più importante della sua carnagione» e tutti i più grandi jazzisti erano influenzati da musicisti sia neri sia bianchi. Insomma, ridurre l’identità del jazz a un’unica dimensione è fortemente limitativo di questo genere musicale che esprime la cultura più profonda di un intero Paese.
Per questo il titolo del libro, forse un po’ pretenzioso, sembra rivolgersi soprattutto ai giovani americani, invitati a scoprire la più grande musica d’America, senza fermarsi all’esteriorità di altri generi musicali, come il rap, che poco hanno da dire sulla cultura statunitense. Marsalis si scaglia quindi contro tutti coloro che hanno voluto banalizzare la portata culturale del jazz. Arriva anche a criticare i presunti “amici” del jazz, come gli intellettuali di riferimento della Beat Generation (Allen Ginsberg in particolare), i quali lo hanno ridotto a pura espressione di libertà che nasce da un feeling spontaneo, senza alcuna regola, quasi fosse prodotto da una una serie di fattori casuali e non da circostanze storiche e culturali ben precise. Marsalis non intende ripercorrere l’evoluzione del jazz dalla sua nascita agli ultimi sviluppi, ma si sofferma sugli elementi che ne permettono una definizione – il linguaggio, le caratteristiche ritmiche, la centralità dello swing, le profonde radici blues – e conclude con alcuni brevi ritratti di grandi jazzisti che in alcuni casi ha conosciuto di persona: Louis Armstrong, Art Blakey, Ornette Coleman, Duke Ellington, Marcus Roberts e altri. Tutti personaggi di cui Marsalis mette in luce non solo lo stile e lo spessore artistico, ma anche le lezioni di vita che sono in grado di impartire a chi sia alla ricerca di un nuovo modo di affrontare la vita.
Adoro il jazz, è la musica che più si avvicina al pulsare del sangue nelle vene 🙂
Grazie del commento, Gabri! Anche io amo questo genere ogni giorno di più. Oltre che ascoltarlo mi appassiona tanto la sua storia, così intrecciata con la lotta degli afro-americani!
Niente da fare, mi affascina la cultura jazz, il periodo storico, la storia personale degli artisti… ma non riesco ad appassionarmi all’ascolto 😦
Cara Giorgia, i gusti sono gusti! La musica deve trasmettere emozioni… Ma un innamoramento può avvenire anche a piccoli passi!
Parole sante 🙂