Era l’estate del 2008 e nella solitudine della casa dei miei genitori, che all’epoca era anche la mia, trascorrevo le giornate impegnato in due sole occupazioni: rabboccare di crocchette le ciotole di Sirio e Jago, i nostri due voraci bastardini, e scrivere la mia tesi di laurea dedicata al pensiero politico di Benjamin Constant. Ho un ricordo splendido di quel periodo. Al riparo dalla canicola estiva, seduto al grande tavolo in marmo della taverna, circondato da libri e fogli di appunti sparsi un po’ dappertutto, lavoravo forse per la prima volta con tanta dedizione a qualcosa che mi appassionava davvero e che sentivo intimamente nelle mie corde. Raramente in seguito mi sarebbe capitato di poter leggere, studiare e scrivere con tanta tranquillità, isolato da tutti, senza inutili distrazioni. Il mio rapporto con Constant nacque nel silenzio di quella casa, durante quella estate di sette anni fa.
Soltanto ora, però, mi decido a visitare la sua tomba a Père Lachaise, il cimitero nella zona est di Parigi, non molto lontano da Place de la République: partendo da lì e percorrendo fino alla fine l’Avenue omonima, lo trovi all’incrocio con Boulevard de Menilmontant e avenue Gambetta. Io ci arrivo scendendo dalla collina di Belleville, perché è da quelle parti che ho affittato il piccolo appartamento in cui sto trascorrendo questa fresca estate di studi e passeggiate in solitaria.
Appena varcato l’enorme cancello del Père Lachaise, un silenzio quasi irreale mi avvolge: scomparsi i rumori del traffico e il vociare della gente, mi immergo in un luogo estraneo al resto della città. Saranno le nuvole che diffondono una luce biancastra donando alle lapidi di pietra un colore livido o il vento che soffia costantemente tra i rami dei pioppi creando un soffuso tappeto sonoro, ma l’ambiente mi trasmette tranquillità e una piacevole sensazione di benessere.
Figure indistinte vagano alla ricerca delle sepolture di personalità note, che qui certo non mancano: da Chopin a Balzac, da Proust a Delacroix, da Oscar Wilde a Edith Piaf. Un giovane rocker che indossa una consunta maglietta dei Doors accelera il passo per raggiungere gli amici in cerca della tomba di Jim Morrison; una robusta donna di mezza età si preoccupa della buona riuscita di un selfie davanti alla cappella Rossini. Io, nonostante l’aiuto della piantina del cimitero, non riesco a trovare ciò che cerco.
La tomba di Benjamin Constant è incastonata tra due sentieri che viaggiano parallelamente l’uno all’altro, ma su due livelli diversi: l’intero cimitero, infatti, benché nella zona appena dopo l’ingresso sia pianeggiante, in realtà si sviluppa disordinatamente su una collina, in un’inestricabile serie di viuzze e ripide scalinate. Per una buona mezz’ora mi affanno nella ricerca, senza risultati, poi finalmente la individuo e ne rimango stupito.
Contrariamente alla magnificenza di altre, la sua sepoltura è sobria, discreta, vuole passare quasi inosservata. Si compone di un cassone di pietra rettangolare che, rialzato di un trenta centimetri rispetto al terreno, è ricoperto da un fitto strato di muschio e di una stele di pietra alta poco più di un metro con una superficie in marmo incisa con il nome, le date di nascita e morte e le parole in arduis constans. Il tutto circondato da una bassa ringhiera in ferro, quasi ad evitare che qualche visitatore distratto possa inavvertitamente calpestarla.
Chissà cosa mi aspettavo… Ne sono un po’ deluso: a un tale personaggio non spetterebbe di diritto una tomba di ben altra caratura?
Ma mentre la osservo mi rendo conto che invece è perfetta e ho la sensazione che quella lapide, con la sua sobrietà e il suo tentativo di confondersi tra le altre, incarni benissimo il personaggio e tutto ciò che lui rappresenta per me. E non posso fare a meno di pensare a quella sua idea di libertà intesa non solo come difesa dal potere politico, ma come sentimento vissuto intimamente, come capacità di arricchimento interiore e di perfezionamento continuo. E poi quelle tre parole, in arduis constans, a ricordare la sua vita fatta spesso di scelte sbagliate, ma di coerenza e fedeltà a certi ideali, e a rimarcare quanto sia difficile portare avanti le proprie convinzioni mentre la società e l’ambiente in cui vivi vanno in tutt’altra direzione. E così, davanti a quella lapide, nonostante il mio agnosticismo, non posso fare a meno di parlargli e di ringraziarlo per le sue idee, per le sue parole e per tutto ciò che fin da quell’estate di sette anni fa lui significa per me.
La guardo ancora una volta, poi mi volto e mi rimetto in cammino, perdendomi in quel labirinto di pietre e storie vissute.