Cahier parisien 2. – Su e giù per il quartiere latino, tra suggestioni balzachiane, impronte della Rivoluzione e conti salati

PanthéonC’è una passeggiata che mi piace fare spesso a Parigi. Sempre la stessa. Mi piace perché mi ricorda il giorno in cui arrivai in città per la prima volta, ormai cinque anni fa, quando imparai subito che Parigi ti seduce e poi ti colpisce al portafoglio.
Quella sera camminavo avvolto in un cappotto marrone lungo fin sotto il ginocchio, la sciarpa ben arrotolata intorno al collo e le mani guantate in tasca, ma il freddo mi entrava impietoso nelle ossa, perché a Parigi, a novembre, l’umidità non scherza.
Ero giunto a Gare de Lyon da appena un paio d’ore. Il tempo di sistemarmi in una residenza universitaria del quartiere latino, in una stanzetta di 15 metri quadri con le pareti plastificate come la toilette di un aereo; qualche secondo per sporgermi dal balconcino e scorgere a destra, oltre i tetti, le guglie di Notre-Dame, e a sinistra la cupola del Panthéon, e poi immediatamente fuori, alla scoperta di quella città che avevo a lungo idealizzato e che finalmente avevo di fronte in tutta la sua bellezza. Mi esaltava l’idea di non essere semplicemente un turista: ci avrei trascorso un mese e mezzo per motivi di studio e di ricerca, ma mi sentivo un flâneur baudeleriano, libero di camminare senza una meta, indugiando con calma per le sue vie, tra i suoi palazzi eleganti e irraggiungibili.
In cerca di un posto dove cenare, percorsi a passo sostenuto rue des Carmes che, partendo da Boulevard Saint-Germain si arrampica sul versante nord della montagne Sainte Genévieve – la collina su cui si estende una buona parte del quartiere latino – e arriva al Panthéon, ma non prima di aver cambiato nome in rue Vallette. Saint-Etienne-du-MontAttraversai la piazza del Panthéon e mi ritrovai a pensare a Jean-Jacques Rousseau e alle sue spoglie che riposavano in quel luogo dagli anni della Rivoluzione. Provai a immaginare la città in quel periodo di turbolenze rivoluzionarie, di teste che saltavano, ma anche di ideali per cui combattere e di diritti da conquistare.
Guardai il cielo. La luna rischiarava le nuvole novembrine, una leggera nebbia sfocava i piani più alti degli edifici sfumandone i contorni con l’arancione dei lampioni, e io provavo uno strano senso di trascendenza nel rendermi conto che sotto quello stesso cielo, in quegli stessi luoghi, si erano consumati eventi storici tanto importanti per il mondo che conosciamo e si erano incontrati personaggi di cui avevo letto le opere, studiato le idee e a volte ammirato il coraggio.
Mi lasciai sulla sinistra la bellissima chiesa di Saint-Etienne-du-Mont e scesi per rue Clovis, che, scoprii in seguito, non esisteva prima dell’Ottantanove. Quando i rivoluzionari iniziarono a distruggere chiese, conventi e monasteri, sulle rovine dell’abbazia di Sainte Geneviève, che sorgeva proprio in quel punto, eressero un liceo, il rinomato Henri IV, frequentato nel Novecento da personaggi come Foucault, Deleuze e Maritain. Quasi per caso svoltai a destra in rue Descartes, che scende trasformandosi ben presto in rue Mouffetard, strada di negozietti e ristorantini tipici, molto turistica, con le lavagnette esposte davanti ai locali che ti invitavano a entrare per gustare raclette, fondue bourguignonne e altre specialità francesi. Che città meravigliosa, pensai, è il 1° novembre, fa un freddo cane, ma per un posto caldo che ti accolga hai l’imbarazzo della scelta.
Rue TournefortGiunto alla fine della via, dove il quartiere latino lascia il posto al faubourg Saint Marcel, svoltai a destra e risalii la collina imboccando rue Tournefort. La percorsi per un buon tratto, fino all’incrocio con rue du Pot de Fer, dove d’improvviso, mi illuminai. Su un edificio, sotto la classica targa blu con il nome della via, era rimasta scolpita l’antica denominazione della rue Tournefort, rue Neuve Sainte Geneviève, anche se la sigla “St.” era stata cancellata a colpi di scalpello dai rivoluzionari. Ma non fu questo a colpirmi: quell’antico nome mi diceva qualcosa. Ero in un periodo di letture balzachiane e nelle settimane precedenti, proprio per immergermi nell’atmosfera parigina, avevo letto in rapida sequenza Eugénie Grandet, Une ténébreuse affaire e Le père Goriot: avevo amato in maniera particolare quest’ultimo romanzo ed ero quindi quasi certo che in rue Neuve Sainte Geneviève Balzac avesse collocato la pensione gestita da madame Vauquer in cui si svolgono gran parte delle vicende di Goriot, del giovane Eugène de Rastignac e del cinico Vautrin. Mi emozionai a quel pensiero e mi sembrò quasi di vederlo, il vecchio papà Goriot, lassù all’inizio della via, mentre camminava ricurvo, avvolto in un cappotto consunto…
Rue Tournefort 2Imboccata nuovamente rue Mouffetard, entrai in un piccolo bistrot con pochi tavoli e la luce soffusa. Ad attrarmi furono le innumerevoli bottiglie di vino che riempivano le pareti, tra cui scelsi un Côtes de Nuits Villages, il primo vino di Borgogna della mia vita, che, fin dal primo sorso, quasi mi commosse. Sarà stata l’atmosfera accogliente e incredibilmente parigina che si respirava in quel posto, o la gioia di trovarmi in quella città meravigliosa, o, molto più probabilmente, sarà stato il vino che pian piano allentava la mia soglia d’attenzione, ma tra un foie gras e un coq au vin non mi resi conto che il conto era lievitato, e non poco. Pagai e mi rimisi in cammino, pensando a quanto mi sarebbe costato vivere a Parigi un mese e mezzo. La nebbia intanto si era abbassata, il freddo mi sembrava ancora più pungente e mentre risalivo di buona lena verso il Panthéon mi vennero in mente Vautrin e le parole che a un certo punto rivolge al giovane Eugène:

«Mio giovane amico», riprese Vautrin, «se vuol figurare a Parigi, ha bisogno di tre cavalli e di un tilbury per la mattina, di un coupé per la sera, in tutto novemila franchi per i mezzi di trasporto. Sarebbe indegno del suo destino se non spendesse tremila franchi dal sarto, seicento dal profumiere, cento scudi dal calzolaio, cento dal cappellaio. Quanto alla lavandaia, le costerà mille franchi. I giovani alla moda non possono non essere all’altezza in fatto di biancheria: non è la cosa che in loro si osserva di più? L’amore e le chiese esigono belle tovaglie sui loro altari. E così siamo a quattordicimila. Non le sto a parlare di quello che perderà al gioco, in scommesse, in regali. Per le piccole spese non si possono contare meno di duemila franchi. Ho fatto questo genere di vita e so quanto costa. Aggiunga a queste prime necessità trecento luigi per la zuppa, mille franchi per la cuccia. Via, figliolo mio, o si hanno in saccoccia i nostri venticinquemila franchi all’anno, o si finisce nel fango, ci si fa prendere in giro…» (da Papà Goriot, di H. de Balzac).

Certo, io non necessitavo di tutto ciò, ma nelle settimane seguenti non mi concessi altri vini di Borgogna. Ero pur sempre solo un dottorando giunto a Parigi per studiare…

3 Comments

    1. Ciao Nellie, grazie del commento! Alla fine in una città come Parigi, hai continuamente da scoprire. Forse non basta una vita per conoscerla a fondo.
      Comunque ti ho letto diverse volte su Finzioni, ora ho scoperto il tuo blog e ti seguirò con molto interesse!

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