Quel passo di Croce che ispirò Bobbio

Croce-BobbioIn queste ultime settimane mi sono dedicato allo studio di alcune opere di Bobbio, per prepararmi a un convegno organizzato dal Centro di Studi Piero Gobetti, che si terrà al Circolo dei Lettori di Torino oggi e domani per celebrare i sessant’anni della pubblicazione di Politica e cultura pubblicato da Einaudi nel 1955.
Queste letture mi hanno portato a riflettere su un aspetto: anche le menti più brillanti, quelle che più lucidamente sono in grado di cogliere la complessità del mondo che li circonda, si creano dei miti, delle figure di riferimento a cui tornare periodicamente nel corso della propria vita. Può sembrare una banalità, ma molto spesso anche solo una frase, un pensiero di un loro predecessore li colpisce a tal punto da suscitare in loro nuove riflessioni, da spingerli a occuparsi di un certo tema e a sviluppare nuove idee.
Per Bobbio, Benedetto Croce ebbe proprio questa funzione. Pur prendendo le distanze dall’impostazione crociana fin dagli albori della sua carriera, Bobbio tornò a rileggere le sue opere continuamente nel corso della sua vita. E c’è un passo di Croce che, alla morte del filosofo abruzzese avvenuta nel 1952, ricorre numerose volte tra i suoi appunti manoscritti, ma anche nei suoi testi editi:

Ciascuno di noi può contribuire, quotidianamente, nei più vari modi, a restaurare, a rinsaldare, a rendere più operoso e combattente l’amore della libertà, e senza pretendere o attendere l’assurdo, ossia che la politica cangi la natura sua, contrapporle una forza non politica, che essa non può sopprimere mai radicalmente perché rigermina sempre nuova nel petto dell’uomo, e con la quale dovrà sempre, per buona politica, fare i conti.

Il passo è tratto da uno degli ultimi scritti di Croce, Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, pubblicato qualche mese prima della morte del filosofo avvenuta il 20 novembre 1952. Per Bobbio queste parole avevano certamente un significato particolare. Nel marzo 1953, infatti, pubblicò su “Il Ponte” una breve nota dal titolo La “forza non politica” nella quale definì i due opposti atteggiamenti dell’intellettuale di fronte alla politica, esemplificati dalle posizioni di Julien Benda e Antonio Gramsci. Se il primo aveva parlato di “tradimento dei chierici” per mettere in luce l’atteggiamento dell’uomo di cultura che «partecipa alla lotta politica tanto intensamente da mettersi al servizio di questa o quella ideologia», il secondo aveva denunciato l’inutilità e la sterilità dell’opera dell’intellettuale che «si pone al di sopra della mischia per non tradire» la cultura. Rifiutando entrambe le posizioni, Bobbio delineò la propria, citando appunto il passo crociano e richiamando il concetto di “forza non politica” ossia di forza morale che permette di definire la missione dell’uomo di cultura: «in quanto difende ed alimenta valori morali, nessuno può accusarlo di essere schiavo delle passioni di parte».
Ma di quel passo crociano così caro a Bobbio, a me piace soprattutto la prima parte, che fa implicitamente riferimento alla concezione che Croce aveva della libertà come ideale morale. Penso proponga un insegnamento perennemente valido e penso che non riguardi solo gli intellettuali. Mi piace pensare che davvero ciascuno di noi possa contribuire ogni giorno, “a rinsaldare, a rendere più operoso e combattente l’amore della libertà” e credo che questo possa avvenire compiendo quotidianamente il proprio dovere, svolgendo nel migliore dei modi il proprio lavoro, essendo onesti con sé stessi, assecondando la propria vocazione a svolgere una certa attività piuttosto che un’altra, tenendo duro di fronte alle difficoltà che una scelta del genere comporta.
D’altronde non fu proprio questo l’esempio che Croce diede durante gli anni bui del fascismo? Per molti, come per Bobbio, fu il faro che indicò la via da percorrere, la coscienza morale di un’Italia gravemente in difficoltà. Un’Italia che ancora oggi avrebbe forse bisogno di rileggere a fondo le opere crociane.

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