Da quando, diciannovenne, studiai per la prima volta il pensiero politico di John Stuart Mill (1806-1873) di cui oggi ricorrono i duecentodieci anni della nascita, mi capita spesso di ripensare alla sua esperienza biografica e intellettuale. E da allora mi porto dietro soprattutto due idee, due spunti.
La prima riguarda l’elemento della crisi, intesa non in senso economico, ma personale, esistenziale. Credo che molti ne abbiano attraversato una nel corso della propria vita. Una crisi, in un modo o nell’altro, è sempre un momento di svolta: nel peggiore dei casi può certificare il fallimento, la débâcle totale, l’annientamento definitivo; nel migliore, può avviare il rapido rilancio e l’immediato riscatto. Nella maggior parte dei casi, sancisce quantomeno un mutamento di prospettiva nell’approcciarsi alla vita.
Di crisi, Mill ne attraversò una tremenda all’età di vent’anni. Durante l’infanzia era stato un vero bambino prodigio: a tre anni già studiava matematica e storia, a dieci leggeva in lingua originale i classici latini e greci, a tredici era appassionato di economia e divorava i trattati di Adam Smith e David Ricardo. La sua adolescenza era stata, come scrive nella sua Autobiografia, un vero e proprio corso di benthamismo: il padre James Mill e l’amico di una vita Jeremy Bentham lo avevano educato somministrandogli dosi massicce di utilitarismo, per fare di lui un uomo perfettamente razionale. Quasi inevitabile che a vent’anni lo colpisse una grave depressione, dovuta a cause sia affettive sia intellettuali. Il giovane John avrebbe potuto soccombere, ma riuscì invece a riprendersi individuandone la causa: nella sua vita, fino a quel momento, c’era stata una sovrabbondanza di analisi, di logica, di razionalità e una deficienza di cultura poetica, di sentimenti, di romanticismo. Quella crisi, che fu forse l’evento più importante della sua esistenza, gli consentì dunque di mutare prospettiva e di mettere a fuoco una diversa idea di felicità: l’azione umana non può essere mossa unicamente dal perseguimento di fini personali. Certo, la felicità è la grande meta cui l’uomo aspira, ma non può essere una felicità egoistica, ma altruistica, in funzione degli altri, in funzione del progresso del genere umano, a cui si può contribuire nei modi più diversi: non necessariamente facendo volontariato o beneficenza, ma anche coltivando un’arte, una scienza o una passione, a seconda delle attitudini e delle aspirazioni di ciascuno.
Il secondo elemento riguarda il suo elogio dell’originalità dell’individuo, tema sviluppato nel III capitolo della sua opera più famosa: On Liberty (1859). In un mondo dominato dal conformismo, non solo le persone devono essere messe in condizione di coltivare abitudini e stili di vita diversi, senza che si accontentino di seguire quelli della massa, ma diventa fondamentale l’apporto delle menti brillanti, degli individui dotati di genio e di originalità. Al di là dei risvolti elitistici – su cui si può essere d’accordo o meno – che una tale concezione comporta sul piano politico, questa idea mi ha sempre affascinato e mi pare che possa costituire un monito costante per chiunque: ciascuno di noi può infatti lavorare per fare emergere la propria originalità, ciò che lo rende particolare, diverso dagli altri. Non si tratta di un atteggiamento semplice da adottare: è quasi sempre più comodo e confortevole uniformarsi al sentire comune, percepirsi parte di una collettività o lasciarsi guidare da qualcuno che si fa portatore di verità o di ricette per essere felici. Certo, chiunque pensa che «il genio sia una gran bella cosa se permette di scrivere magnifiche poesie o di dipingere quadri», ma del genio vero, inteso «nel suo vero senso di originalità di pensiero e di azione» generalmente si pensa che si possa fare a meno. Eppure, ci spiega Mill, l’originalità di alcuni individui gioca un ruolo fondamentale nella società, perché permette anche alle persone non originali di aprire gli occhi e di elevarsi da quella mediocrità che costituisce «la tendenza generale del mondo» (J.S. Mill, Saggio sulla libertà, Net-Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 75-76).
Il lascito di Mill è naturalmente enorme e non ho certo pensato di ridurlo a quanto ho scritto; ma questi due elementi mi ritornano periodicamente in mente e credo possano costituire ancora oggi una fonte di riflessione nei momenti di difficoltà e una traccia sempre valida per tentare di migliorarsi continuamente.