Sono trascorsi esattamente dieci anni dalla morte di David Foster Wallace e, come spesso è capitato nella storia della letteratura (e non solo), la sua figura è troppo spesso associata all’ultimo atto che ha compiuto, quello di togliersi la vita. Ma Foster Wallace non è il suo suicidio e non può essere, secondo me, né il nome da tirar fuori per darsi un tono nelle conversazioni pseudo-intellettuali, né l’autore da cui estrapolare citazioni da baci Perugina o da instagrammers (anche se su questo punto il povero Bukowski è, purtroppo per lui, imbattibile), né tanto meno l’autore-eroe venerato come una rock star, neanche fosse un nuovo Ian Curtis o Kurt Cobain. In questo senso, il film The End of the Tour – racconto della visita del giornalista di “Rolling Stone” David Lipsky a casa di Foster Wallace e del loro viaggio di cinque giorni per il tour promozionale di Infinite Jest nel 1996 – è in controtendenza nel rendere bene la fragilità e l’umanità dello scrittore.
A distanza di dieci anni, da semplice lettore, mi domando invece cosa rimanga della sua opera. Per quanto non abbia ancora avuto modo, per mancanza di coraggio, di cimentarmi con il suo più voluminoso romanzo, Infinite Jest e per quanto mi manchino diverse altre sue opere di fiction come ad esempio Il re pallido, ho letto La scopa del sistema e molti dei suoi racconti, contenuti in La ragazza dai capelli strani, Oblio, Questa è l’acqua.
Mi sento di dire che il David Foster Wallace saggista è superiore al narratore e romanziere. Almeno, a mio parere. Una cosa divertente che non farò mai più e i testi raccolti in Considera l’aragosta, Tennis, tv, trigonometria e tornado, mi parvero, quando li lessi, di gran lunga superiori, soprattutto per il loro modo di cogliere le infinite contraddizioni della società americana così come appariva tra gli anni Novanta e gli anni Zero. Ora, a distanza di anni, mi tornano alla memoria in maniera abbastanza nitida il saggio sull’industria americana del porno, quello sulla campagna elettorale di McCain, il reportage sulla fiera dell’aragosta del Maine, il saggio sull’ironia e la letteratura americana, quello autobiografico sul tennis e la trigonometria, quello su Roger Federer (pubblicato a parte con il titolo Roger Federer come esperienza religiosa) e il reportage dal set del film Strade perdute di David Lynch. Al contrario, non riesco a ricordare, se non vagamente, un solo racconto che mi colpì e, anzi, confesso che non di rado ebbi difficoltà a portarne a termine diversi. La narrativa di David Foster Wallace non mi ha appassionato, l’ho trovata ostica, o meglio volutamente e ostentatamente ostica. Al contrario, i suoi saggi mi appaiono di una chiarezza e di un acume fuori dal comune, certamente tra i migliori esempi di non fiction narrativa.