Di fronte ad alcuni recenti e inaspettati esiti elettorali – il referendum sulla Brexit, l’elezione di Trump negli Stati Uniti, l’ascesa di movimenti populisti in diversi Paesi occidentali – è tornato al centro dei dibattiti politici il tema del rapporto tra godimento dei diritti politici e consapevolezza politica degli elettori, intesa non solo come conoscenza approfondita e specifica del tema oggetto delle consultazioni, ma anche, più in generale, come conoscenza in materia politica da parte dei cittadini democratici. La questione è stata affrontata, tra gli altri, dal politologo e filosofo politico americano Jason Brennan in un volume di successo intitolato “Against Democracy“ (2016), uscito anche in italiano nel 2018.
Il provocatorio libro di Brennan (cui ho dedicato un intervento al convegno annuale della Società Italiana di Scienza politica in un panel sul tramonto delle democrazie liberali), merita di essere letto, se non altro per capire come in un momento politicamente difficile quale quello che stiamo vivendo si facciano strada nel dibattito pubblico tesi che mettono in dubbio alcune fondamentali conquiste otto-novecentesche come il suffragio universale e il principio di eguaglianza del voto. Brennan è convinto che la partecipazione politica non ci educhi né ci nobiliti, ma tenda a renderci più stupidi e corrotti. Il declino dell’impegno politico a cui si assiste negli ultimi anni è dunque un buon inizio e bisogna sperare in una partecipazione sempre minore e non maggiore.
Brennan è infatti convinto che i cittadini democratici (negli Stati Uniti, ma credo che il suo ragionamento voglia adattarsi a tutte le democrazie occidentali) si suddividano essenzialmente in tre categorie:
1) gli hobbit: sono le persone per lo più apatiche e che non sanno nulla di politica, che non hanno opinioni forti in materia e che spesso non ne hanno alcuna; sono persone che vivono senza preoccuparsi troppo di politica;
2) gli hooligan: sono i tifosi sfegatati della politica, per i quali la politica costituisce una parte importante della loro identità, che hanno una visione del mondo inalterabile e che leggono e si informano molto, ma sempre in maniera partigiana, semplicemente per confermare opinioni che hanno già;
3) i vulcaniani: sono persone che pensano la politica in maniera scientifica e razionale, che hanno conoscenze nelle scienze sociali e nella filosofia, che si sforzano di rimanere distaccati e di non essere parziali e irrazionali.
Si tratta di macro-categorie che ovviamente semplificano molto il discorso, ma che fanno ben capire, secondo Brennan, i diversi approcci alla politica. Nessuno riesce ad essere vulcaniano fino in fondo, mentre le categorie di hobbit e holigan si adattano a molte persone. Ecco, Brennan ritiene che la partecipazione politica tenda a trasformare gli hobbit in hooligan. Secondo lui staremmo meglio e faremmo star meglio gli altri se stessimo lontano dalla politica.
Brennan vuole opporsi a quello che lui definisce “trionfalismo democratico”, all’idea cioè che la democrazia conduca a risultati giusti ed efficienti, che democrazia e partecipazione tendano a istruire e nobilitare i cittadini o che siano un fine buono in sé. Certo, ammette che sia meglio vivere in una democrazia liberale piuttosto che in una dittatura o in un sistema oligarchico, ma sostiene che ciò non dimostri che la democrazia sia il migliore sistema possibile. Se anche lo fosse, si potrebbe comunque migliorare, a suo parere, riducendo la partecipazione politica.
Del resto, per giustificare la democrazia è necessario spiegare perché è legittimo imporre su persone innocenti decisioni prese in modo incompetente.
Schierandosi in favore di una minore partecipazione politica, Brennan propone come soluzione l’epistocrazia, “il governo di coloro che sanno”. Un regime può definirsi epistocratico quando il potere politico è formalmente distribuito secondo le competenze. Tuttavia, quando parla di epistocrazia Brennan non pensa al re filosofo o a una casta di guardiani, ma a una serie di possibili meccanismi epistocratici relativi al suffragio e ai meccanismi elettorali. Ecco le possibilità che ha in mente:
1) suffragio ristretto: i cittadini possono acquisire il diritto di voto o concorrere alle cariche pubbliche solo se giudicati competenti o sufficientemente informati;
2) voto plurimo: tutti i cittadini sono titolari del diritto di voto, ma alcuni di essi, giudicati più competenti, attraverso un determinato procedimento legale, hanno voti addizionali (è il modello già proposto nella seconda metà dell’Ottocento da John Stuart Mill);
3) suffragio per sorteggio: un sistema in cui i cicli elettorali si susseguono normalmente, ma nessuno ha automaticamente il diritto di voto, ma prima delle elezioni vengono sorteggiati alcuni cittadini che potranno diventare pre-elettori, guadagnandosi il diritto di voto partecipando a procedimenti di acquisizione di competenze (forum, seminari, tavole rotonde);
4) veto epistocratico: tutte le leggi sono frutto di una procedura democratica, ma un corpo epistocratico, riservato a pochi membri, ha il diritto di veto;
5) voto soppesato: tutti i cittadini possono votare, ma vengono sottoposti a un test delle conoscenze politiche di base e i loto voti sono soppesati sulla base delle loro conoscenze politiche (tenendo conto anche dell’influenza di altri fattori come reddito, sesso, ecc.). Il meccanismo del voto soppesato o “oracolo simulato” prevede che si possa stabilire quale sarebbe, riguardo a una determinata questione, la scelta “perfetta” per l’intera popolazione, se tale scelta fosse fatta da tutti cittadini perfettamente competenti. Ciò presuppone non solo un test per tutti i votanti, ma anche che si conoscano bene le preferenze politiche di tutti gli elettori e le loro caratteristiche demografiche (sesso, razza, reddito ecc.). In questo modo, conoscendo le caratteristiche demografiche, si potrebbero correggere eventuali “pregiudizi” indotti da esse.
La scelta tra democrazia ed epistocrazia secondo Brennan è strumentale: si tratta di scegliere quale sistema funzionerebbe meglio nel mondo reale e se qualche forma di epistocrazia si rivelasse migliore rispetto agli attuali meccanismi democratici bisognerebbe implementarla.
Il termine “epistocrazia” è stato coniato nel 2003 dal filosofo americano David Estlund per riferirsi, con un atteggiamento fortemente critico, alle dottrine politiche di autori come Platone e John Stuart Mill. Secondo Estlund le argomentazioni a favore dell’epistocrazia si fondano su tre principi:
1) principio di verità: esistono risposte corrette alle questioni politiche;
2) principio di conoscenza: alcuni cittadini possiedono maggiori conoscenze a proposito di queste verità o sono più affidabili nello scoprirle;
3) principio di autorità: quando alcuni cittadini possiedono maggiori conoscenze o sono più affidabili è lecito assegnare loro autorità politica su quelli che hanno una conoscenza minore.
Secondo Estlund, ma anche secondo Brennan, si possono accogliere i primi due principi, mentre è difficile accettare il terzo: possedere una conoscenza superiore difficilmente può giustificare un qualche potere. Così Brennan ribalta il principio di autorità definendo il principio di antiautorità:
Quando alcuni cittadini sono moralmente irragionevoli. ignoranti o politicamente incompetenti, è lecito non consentire loro di esercitare autorità politica sugli altri. O impedendo loro di detenere il potere o riducendo il potere che hanno al fine di proteggere persone innocenti dalla loro incompetenza.
Tesi di questo genere, rimettendo in discussione conquiste consolidate come il suffragio universale e il principio di eguaglianza del voto, si prestano a innumerevoli critiche, soprattutto se si affronta la questione dal punto di vista valoriale, sulla base delle convinzioni politiche individuali, se si entra cioè nel campo di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. A questo proposito Brennan afferma che dal fatto che in passato l’ineguaglianza politica sia stata ingiusta non consegue che essa sia ingiusta di per sé: se in passato molte persone sono state escluse dai diritti politici per ragioni sbagliate ora potrebbero esserci buone ragioni per escluderne altre o assegnare loro un minor potere. Mi pare però evidente come i concetti di giusto e ingiusto non siano definibili in maniera univoca e universale.
A mio parere, le tesi di Brennan possono essere ampiamente criticate anche adottando una prospettiva realistica e non valoriale. Una delle critiche che si possono muovere all’epistocrazia investe ad esempio il problema della legittimazione del potere. Diventa difficile legittimare un sistema politico sulla base delle conoscenze e delle competenze, dal momento che non di rado esse dipendono in larga misura da condizioni sociali ed economiche; e tale legittimazione appare a maggior ragione ancora più difficile in un periodo in cui si assiste a una svalutazione del ruolo dell’esperto in favore del “senso comune”.
Inoltre, da un’eventuale restrizione del suffragio deriverebbe anche un problema di ordine politico: non bisogna infatti dimenticare che storicamente l’allargamento progressivo del suffragio (fino alla conquista del suffragio universale) ha costituito un antidoto ai sussulti violenti della società, contribuendo a dare maggiore stabilità ai sistemi politici. Insomma, anche senza giudicare le tesi di Brennan secondo parametri ideologici, cosa peraltro legittima vista la materia del contendere, i motivi per metterne in dubbio la validità non mancano. Prendendo in esame il libro di Brennan si ha sempre l’impressione di avere di fronte tesi da “scienziato” della politica che, nel tentativo di porre rimedio alle attuali derive, mirano però a svuotare di significato il concetto stesso di politica negandone l’intrinseca conflittualità. Rimangono in ogni caso posizioni, peraltro meno originali di quanto Brennan pensi, che trovo interessanti nel dibattito che si sta sviluppando nell’era dei Trump e dei cosiddetti “populismi”.