Parlare in nome del popolo è pericoloso: Robespierre, l’incorruttibile e il tiranno

Negli ultimi giorni ho letto l’ultimo libro di Marcel Gauchet, Robespierre. L’incorruttibile e il tiranno (Milano, Donzelli, 2019), che consiglio caldamente. Che senso ha oggi occuparsi ancora di Robespierre? La risposta può sembrare banale, ma non lo è: si tratta di un personaggio che ancora divide tanto gli storici quanto il vasto pubblico (il titolo originale del libro parla chiaro: Robespierre, l’homme qui nous divise le plus, Gallimard, 2018). Per alcuni è l’unico vero emblema della Rivoluzione dei “Diritti dell’uomo”, per altri è semplicemente un tiranno, un criminale, un mostro per i mezzi impiegati durante il Terrore. Come raccordare allora queste due immagini opposte che la storia gli riconosce? Non è una domanda oziosa, perché si tratta di spiegare come una Rivoluzione scaturita da un ideale positivo, dal bisogno di riappropriarsi di quei diritti ritenuti “naturali” dell’uomo, sia sfociata nella prima dittatura assembleare della storia, in un regime che ha messo a morte sistematicamente gli oppositori politici, “i nemici del popolo”.
Gauchet non va alla ricerca di motivazioni psicologiche nell’infanzia e nel passato pre-rivoluzionario da piccolo notabile di provincia di Robespierre, ma ne analizza la parabola politica attraverso i numerosi scritti e discorsi prodotti durante quel primo lustro della Rivoluzione che segna dapprima la sua ascesa repentina, poi la sua caduta violenta. Ciò che colpisce è proprio il fatto che sembrano esistere due Robespierre: il primo, l’Incorruttibile, il difensore intransigente della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo”, oratore appassionato, per certi versi “liberale” nelle sue lotte per la libertà di stampa e contro la pena di morte; un Robespierre che non ha nulla del trascinatore e del demagogo. Il secondo Robespierre è il Tiranno, il “terrorista”, colui che prima giustifica i massacri di settembre, poi spinge per la decapitazione del sovrano e infine, una volta entrato al Comitato di salute pubblica, diviene il protagonista della politica del Terrore.
Quando e come è avvenuto il passaggio dal primo al secondo Robespierre? In quella che secondo me è la parte più bella e interessante del libro, Gauchet dà una risposta che fornisce elementi di riflessione che vanno al di là del caso specifico: il mutamento, la svolta nel suo pensiero avviene nel momento in cui, nella primavera del 1792 (durante la polemica con Brissot sulla guerra) si consuma l’identificazione totale di Robespierre con il popolo. Certo, già prima di quel momento aveva idealizzato il popolo, ne aveva tratteggiato un’immagine idilliaca ritenendolo portatore di virtù (in quanto costituito da poveri, in opposizione alla corruzione dei ricchi), ma si era sempre premurato di affermare di non farne parte.
Dalla primavera del 1792, invece, avviene l’identificazione di Robespierre con questo popolo idealizzato e virtuoso, attraverso una retorica basata sull’autocelebrazione, l’autogiustificazione, l’esaltazione di sé stesso, nella quale causa personale e interesse pubblico finiscono per coincidere; «una sorta di espansione dell’io mediante una sua proiezione e dissoluzione in una dimensione più vasta». Sembra quasi di veder descritti certi personaggi “populisti” dell’attuale politica mondiale.
Ma non cadiamo nelle facili analogie storiche: la differenza a mio parere (e credo anche a parere di Gauchet) sta nel fatto che Robespierre spersonalizza sé stesso nell’ideale dell’interesse generale e al di fuori di immediate motivazioni egoistiche; si identifica a tal punto nella causa della Rivoluzione (o meglio, di come lui intende la Rivoluzione) da perdere di vista sé stesso e anche la realtà dei fatti. Lo fa in maniera totale e sincera, esclusivamente in nome dell’ideale rivoluzionario. Ciò non significa ovviamente che un tale meccanismo sia meno pericoloso, anzi. Quando qualcuno parla in nome del popolo e dice di agire in nome del popolo c’è sempre da drizzare le antenne, non dimentichiamolo.

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