Raffaele La Capria e il contributo alla critica di sé stesso

Ieri è morto uno dei pochi scrittori italiani davvero importanti degli ultimi decenni: Raffaele La Capria. Quello che mi ha sempre attirato di La Capria è la sua capacità di fare “critica su sé stesso”, alla maniera crociana, che non è semplicemente scrivere la propria biografia, raccontare di sé e della propria vita, ma è soprattutto andare alla ricerca dei motivi reconditi che stanno dietro la produzione di letteratura, di studi, di libri. Non è per nulla facile mettere a fuoco il senso profondo di ciò che ci guida nel nostro percorso intellettuale, non è facile, usando le parole di Croce, «abbozzare la critica, e perciò la storia di me stesso, ossia del lavoro che, come ogni altro individuo, ho contribuito al lavoro comune: la storia della mia “vocazione” o “missione”» (B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, Adelphi, 1989, p. 13).

La Capria ha invece sempre avuto la volontà e la lucidità di esplorare, avendo come campo d’indagine sé stesso, il significato del fare letteratura, che poi significa esplorare il senso ultimo della vita. Lo ha fatto in False partenze (1974), in cui ripercorre le proprie esperienze letterarie del decennio 1940-1950: un tentativo audace di emanciparsi dall’opprimente cappa ideologica degli anni Settanta, raccontando di un giovane – Candido, suo alter ego – che, nel decennio dominato dalla menzogna, è incapace di trovare un senso agli eventi che sta vivendo, perché è incapace di accettare le spiegazioni e le risposte rassicuranti che gli vengono fornite dalle ideologie, quelle morenti e quelle che si stanno affermando, sempre più pervasive.

Lo ha fatto anche in Letterattura e salti mortali (2011) e in Novant’anni d’impazienza. Un’autobiografia letteraria (2013) che consiglio anche come introduzione alla sua intera produzione letteraria, prima di leggere altro: qui La Capria ripercorre libro dopo libro il proprio percorso, dal primo romanzo Un giorno di impazienza del 1952, passando per Ferito a morte (1961), Amore e psiche (1973) e poi per tutti gli altri, fino a Doppio misto del 2012. È forse proprio questo scrivere da romanziere, mentre scrive saggistica, che più mi piace di lui. La Capria scrive di letteratura, scrive di Napoli, scrive della quotidianità politica e culturale del nostro Paese. È quella che oggi viene chiamata, con un (per una volta) non fastidioso inglesismo, “non-fiction”.

Le brevi prose di Esercizi superficiali (2012) e di Umori e malumori (2013), pubblicate sul “Corriere” nel biennio 2012-2013, sono piccoli gioielli in grado di tratteggiare un’Italia fatta di bassa politica, di cattivo giornalismo, di “fuffa” spacciata per cultura, di “banal-buonisti” che indossano la maschera del bene per fare il male. Il pezzo che apre Umori e malumori tratteggia alla perfezione il quadro generale:

La normalità è lo stato d’emergenza. Mi metto nei panni di un qualunque cittadino che così la vive, sempre frastornato dalla politica e dai media e, dunque, sempre in bilico tra una verità e una contro-verità sullo stato generale delle cose, mentre penosamente tira avanti la sua vita privata e quella intima, molto spesso con un reddito che gli consente di vivere fino alla terza settimana del mese.

Mi riprometto di leggere Ferito a morte, ma intanto il La Capria saggista è già nel mio cuore.

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