In ricordo di Gian Mario Bravo

Gian Mario Bravo bwPer diversi giorni mi sono chiesto se fosse il caso che anche io scrivessi poche righe per ricordare Gian Mario Bravo. Confesso che ho quasi subito scartato questa idea, perché convinto di non “averne il diritto”, avendolo conosciuto e frequentato assai meno di altri, anche, inevitabilmente, per una questione anagrafica. Poi però, scavando nella memoria e ripensando a lui ho ritrovato degli episodi che sono stati per me importanti: perché un giovane studioso – ed è questa la più grande lezione che Gian Mario mi ha lasciato – va non solo incoraggiato, ma anche fatto sentire parte, appena possibile, di una comunità scientifica e di una tradizione di studi.
Per lungo tempo Gian Mario è stato per me, come per molti altri, il Professor Bravo. Erano gli anni del mio percorso universitario alla Facoltà di Scienze politiche a Torino, dove lui rappresentava l’istituzione stessa che io e altri migliaia di studenti frequentavamo. Erano anche gli anni, i primi dei Duemila, in cui ancora circolava il suo Profilo di storia del pensiero politico. Da Machiavelli all’Ottocento che, scritto a quattro mani con Corrado Malandrino, ci faceva puerilmente sorridere per quell’ossimorico sodalizio.
Solo molti anni dopo divenne per me semplicemente Gian Mario. E ciò avvenne con grande naturalezza, la stessa con cui un giorno, verso la fine del mio percorso di dottorato, mi disse, senza esitazione: «Dammi del tu». L’occasione fu un convegno organizzato dalla Fondazione Luigi Firpo e da lui presieduto, su I dilemmi della democrazia. Rousseau tra Tocqueville e Marx. Non un convegno qualunque per me, perché fu il primo in assoluto a cui partecipai in qualità di relatore. Bastarono quella semplice frase e un sorriso di incoraggiamento subito prima della mia relazione, per farmi vincere il terrore di parlare in pubblico davanti a una platea di affermati studiosi della disciplina che avevo scelto come campo di studio.
Gian Mario non badava al grado accademico: la consapevolezza di sé, la sabauda eleganza con cui trattava chiunque e la non comune attenzione per i giovani studiosi gli consentirono sempre di evitare quei boriosi atteggiamenti di sufficienza che ancora si ritrovano in molti professori universitari. Lo ricordo bene alle assemblee annuali dell’Associazione italiana degli Storici delle Dottrine Politiche, di cui Gian Mario fu per molti anni stimatissimo Presidente: che tu fossi professore ordinario, ricercatore o dottorando, ti prestava davvero attenzione. Quando parlavi con lui ti guardava in volto, ti ascoltava e, se lo desideravi, ti consigliava.
Un paio d’anni dopo quel primo convegno, ebbi il piacere di inviargli il mio primo libro, su un argomento – il pensiero politico di Benjamin Constant – che io immaginavo lontano dai suoi interessi: mi smentì alla prima occasione in cui ci incontrammo, poche settimane dopo. Fu ancora una volta a un convegno, ma questa volta il relatore era lui: durante il suo intervento non solo, con mia grande sorpresa, elogiò il mio volume, ma ne sottolineò con compiacimento l’impostazione metodologica; un’impostazione che provava a mettere a frutto la lezione di Luigi Firpo, che a me era stata trasmessa dal mio maestro, Enzo Baldini, ma nella quale Gian Mario stesso si è sempre riconosciuto.
Un legame forte quello con Firpo: lo dimostra non solo la sua indefessa attività in qualità di Presidente della Fondazione che ne porta il nome, ma soprattutto il suo lavoro di studioso, che ebbi modo di osservare da vicino soltanto pochi mesi fa, collaborando, seppur in minima parte, all’ultima sua fatica editoriale: i due volumi italiani degli scritti di Marx ed Engels del periodo 1867-1873 da lui curati con Manuela Ceretta e Gianfranco Ragona.
Mi piace pensare che lui mi vedesse, accanto a Manuela e a Gianfranco, come l’ultimo esponente di quella tradizione torinese che tanto ha dato alla storia del pensiero politico.
Non dimenticherò la telefonata che mi fece, sei mesi fa, nei giorni successivi alla mia entrata in ruolo all’Università di Bologna: era realmente felice per me. Lo invitai a una cena di festeggiamenti che stavo organizzando. Fu costretto a declinare, ma ci promettemmo che avremmo rimediato al più presto con un pranzo. Non ce n’è stato purtroppo il tempo.

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